Sicurezza sul lavoro, non basta parlarne


Quasi due ogni mese. Sono 18 le morti di lavoro in Liguria tra gennaio e novembre 2021. L’ultima pochi giorni fa: un operaio schiacciato dal carico di una gru in un cantiere in Val Polcevera. Il drammatico contraltare di una regione con 11mila occupati in meno rispetto al 2020 e dove la ripresa è fatta per oltre il 90 per cento di lavoro flessibile, precario e a tempo determinato. In una inquietante crescita parallela delle statistiche della disoccupazione e degli inattivi e quelle degli infortuni.
Oltre 12 mila incidenti denunciati. Più di mille rispetto allo scorso anno, con una percentuale da maglia nera del nord-ovest.
Le poche ispezioni ai ponteggi, ai macchinari e alle attrezzature rivelano irregolarità nel 66 per cento dei casi. Sopra la media nazionale.

Difficile ridurre solo a fatalità, disattenzione dei singoli, sfortuna. Tutte cose che pure esistono. Ma le cause vere sono altre. E stanno nel lavoro senza qualità, da accettare comunque al di là dei ritmi, degli orari, delle protezioni. Con la paura di precipitare nell’esercito dei disoccupati. Perché la sottovalutazione della sicurezza va di pari passo con la frammentazione e la desocializzazione dei lavori, i bassi salari, la catena dei sub appalti e dei sub-sub appalti. È in questo universo dove i confini tra lavoro legale e lavoro nero sono sempre più opachi, dove si lavora come e peggio di cinquant’anni fa, che si muore di lavoro o si è infortunati non di rado in modo permanente. Il lato oscuro di un tessuto di piccole e piccolissime imprese che convivono con l’industria 4.0, l’automazione, il controllo digitale dei processi. Per altro algoritmi e arretratezza produttiva possono anche coincidere nell’assenza di tutele e di prevenzione. Mentre sempre più il lavoro appare come dematerializzato, privato del corpo così come è largamente privo di rappresentazione sociale.

In Italia da gennaio a settembre del 2021 le morti per lavoro sono state 910, comprendendo anche chi ha perso la vita per aver contratto il covid svolgendo la propria attività e i decessi burocraticamente definiti “in itinere”, cioè avvenuti sul percorso tra il lavoro e l’abitazione, largamente dipendenti da stress, fretta, allentamento dei riflessi. Dati Inail. Per l’Osservatorio Indipendente di Bologna i numeri sono assai più alti, 1244 di cui 609 sui luoghi di lavoro e 170 in conseguenza del contagio. Ma anche rimanendo alle cifre ufficiali siamo a più di tre morti al giorno. Sono i contorni di una strage, per usare le parole non soltanto dei sindacati ma del presidente Draghi. Nel 2020 abbiamo toccato la punta di 1270 vittime di cui un terzo collegabili al contagio del virus. Largamente medici e infermieri, in maggioranza donne. In Liguria dal gennaio 2020 al marzo 2021 le morti per covid per lavoro sono state 21, a livello nazionale 551. La pandemia ha inciso in modo significativo sulla sequenza storica, così come, all’opposto, ha pesato il lockdown e l’interruzione di molte attività, ma i morti di lavoro sono stati 1133 nel 2018, 1029 nel 2017, 1108 nel 2016. Oltre 20mila in un decennio.
Certo, non siamo più ai 4349 morti del 1962, in pieno miracolo economico. Le grandi vertenze degli anni 70 per le condizioni del lavoro e il diritto alla salute hanno portato a una legislazione adeguata, a una crescita di consapevolezza nei lavoratori come nelle imprese. Ma questo vale soprattutto per la grande fabbrica dove sono aumentati gli standard, la cultura della sicurezza, le tecnologie. Molto meno, appunto, per il lavoro sfrangiato, a partire dall’edilizia, l’agricoltura, i trasporti. Dove sono più elevati i comportamenti insicuri, più labile il sindacato e più forti i ricatti. Nelle costruzioni, effetto distorto della rincorsa al superbonus, i decessi sono stati 87 contro i 73 del 2020, le denunce 21mila a fronte di 18mila. Con una sempre maggior difficoltà delle strutture pubbliche, ridotte ai minimi termini, di intervenire prima e non dopo. Nel disastro della sanità pubblica degli ultimi decenni ci stanno anche 1900 ispettori in meno rispetto al 2017.
Ed è giusto dire che serve più formazione dei lavoratori ma questa non coincide con il lavoro povero e la svalorizzazione del capitale umano. Abbiamo piuttosto bisogno di una nuova cultura della prevenzione e, insieme, dei diritti. E di affrontare da subito l’emergenza con l’assunzione di operatori e più controlli ma, prima cosa, con l’immediata sospensione e il non accesso agli appalti delle imprese che non rispettano le norme di sicurezza. Ancora una volta torniamo alle scelte che devono collegarsi al Piano di Ricostruzione. Perché serve più lavoro, ma lavoro buono.

Fonte:http://larepubblica.it